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sabato 20 febbraio 2016

Amare la propria Città come se stessi



Mola di Bari - foto di L. Iacoviello

“Erano 300 giovani e forti e…” è così titolata un articolo-provocazione a firma del presidente dell’associazione culturale “Città Nostra”, Nicola Lucarelli, apparsa sul mensile omonimo n.146 – Ottobre 2015.

Perché tornare oggi su quest’argomento? Sarà perché mi ha “infastidito” proprio per l’assoluta realtà dello stesso, sarà perché sin dal primo momento mi sono sentito “toccato” su di un nervo scoperto...continua a leggere.

sabato 18 aprile 2015

Le ragioni di un voto: il mio. (1)


Devo ammettere che non mi aspettavo di essere così “seguito”; non mi aspettavo così tante persone, amici, parenti e conoscenti che dalla mia pagina Facebook, seguono quello che ho da dire, il mio punto di vista, i miei pensieri. Al di là dei Like con cui taluni si rendono presenti e manifestano il proprio apprezzamento, ci sono tanti (più di quanti ne potessi immaginare) che mi seguono e in un certo senso “fanno il tifo per me”.
In questo periodo di campagna elettorale, in diversi si sono fatti avanti e, per strada, partendo proprio da un semplice e banale “ho letto su facebook che tu…”, hanno dato voce a quello che pensavano di me e di quello che scrivevo. In modo particolare, e credo sia il motivo per cui hanno preso coraggio, in riferimento al mio “stare dalla parte di” Stefano Diperna.

Ed è a questo proposito che qui, attraverso uno “spazio” un po’ più grande rispetto ad un post di Facebook, che voglio spiegare le mie “ragioni”, o la ragionevolezza di una scelta. Su questo blog, un po’ abbandonato e un po’ carico di ricordi, che affido alla lettura di quanti vorranno “capire” quanto sto per dire, quelle che sono le mie considerazioni e la mia esperienza.
Non avendo il “tempo” di scrivere tutto insieme, dividerò queste mie ragioni “in puntate”, come fossero piccoli tasselli di un mosaico più grande: le ragioni del mio voto. A quanti mi “seguono” buona lettura!


Come una storia

Come una storia, in effetti è iniziato questo mio “rapporto” con la politica nostrana, così per caso; Occorre qui una premessa circa la mia persona: per scelta personale non sguardo la televisione, sono totalmente ignorante in materia, e persino i film “commerciali” sono da me respinti, preferendo i più “pesanti” del Cinema d’Autore. 
Perché non guardo la Tv? Semplicemente perché in occasione di un incontro promosso in quarto superiore dal mio Istituto, presso gli studi Mediaset a Roma, vengo a conoscenza della “irrealtà” da cui essa è costituita, o meglio della finalità della stessa. L’accompagnatrice ci spiegava: “ragazzi, non esistono cose vere in Tv, ma tutto ciò che vedete è finalizzato al guadagno. Non illudetevi… nulla, nulla è vero”. Appreso ciò decisi di non guardare più la tv, in compenso ho iniziato ad appassionarmi ad altro. 

Premessa questa mia avversione patologica all’informazione di massa, cerco le notizie su quotidiani, ma anche qui ben presto ci si scontra con la dura realtà dell’appartenenza politica o ideologica. Anche questi “raccontano” le notizie a partire dall’obiettivo da perseguire. 

Ritornando alla politica “nostrana”, avevo notato una totale assenza di notizie riguardante questa su di un settimanale locale, il quale non riportava nessuna notizia circa gli atti dell’amministrazione, e quando capitava di leggere qualcosa era per sottolineare incompetenza, assenza di servizi e quant’altro. Tutto andava male e, persino eventi noti a tutti i molesi e partecipati a grande maggioranza, venivano condannati all’oblio. Ancor peggio se promossi o patrocinati dall’amministrazione comunale. 
Tutto questo non mi tornava. Senza dimenticare che sempre lo stesso settimanale era diventato un “bollettino” dell’opposizione, e brulicava di foto di passati amministratori, senza mai e dico mai (solo 4 settimane fa la prima foto) pubblicare foto del sindaco eletto dai cittadini nel 2010.

A questo punto dovevo pur trovare un modo per cercare di capire se davvero il mio paese era allo sfascio come veniva puntualmente raccontato, oppure no. È pur sempre il mio paese, il luogo entro il quale vivo, non potevo fare finta di niente, continuando a girare la testa dall’altra parte.

Decisi allora di iniziare a partecipare ai Consigli Comunali e mi furono subito chiare due cose: la prima è che il consiglio lavorava, discuteva animatamente anche al proprio interno, riportava problematiche e cercava soluzioni (giuste o sbagliate che siano) e la seconda cosa che si palesò era l’assenza della minoranza. La mia presenza ai consigli divenne piuttosto frequente, al primo la minoranza era assente, al successivo pure, al terzo entrava e al momento del voto abbandonava l’aula. All’ultimo Consiglio Comunale era praticamente assente ad eccezione di tre elementi.

Era chiaro che c’era qualche problema con la stampa locale.

Nulla di quanto avveniva in consiglio comunale era da loro riportato, ma ogni cosa, e sottolineo “ogni cosa” veniva bypassata al fine di mettere in luce e in evidenza una carenza che da piccola o  grande che poteva essere, assumeva i toni di una tragedia.
Mi feci coraggio e avvicinai il Sindaco, fino ad allora a me sconosciuto se non per nome e cognome, e chiesi spiegazioni. La spiegazione fu più semplice di quello che potevo immaginare: i soldi.
Semplicemente mi veniva spiegato che questa testata giornalistica percepiva dall’amministrazione comunale precedente una quota, prendeva dei soldi insomma, e che dal momento che la crisi chiedeva a tutti dei tagli, e che dal 2010 lo Stato aveva effettuato un taglio pari a 5 milioni di euro nei confronti degli Enti Comunali, non potevano più permettersi spese “inutili”, e quel contributo non poteva essere più erogato. 
Non si potevano sperperare i soldi dei contribuenti molesi. Questa scelta da parte dell’amministrazione di Mola era stata percepita dal Direttore del settimanale come un affronto, e la “punizione” riservata era quella che si è rivelata in questi anni: un paese descritto sempre più come un posto squallido ed inutile, l’azione amministrativa ridotta alla completa incapacità ed ogni informazione utile alla cittadinanza, e ogni evento promosso dall’amministrazione: oscurato, inesistente, mai accaduto. 

All’ottimo servizio di disinformazione si aggiunge anche la non certa bella immagine che si è data del paese, perché anche in termini turistici, raccontare di un paese in cui “nulla funziona” e “tutto è male” non è certo polo di attrazione né per i turisti e altro non fa che alimentare il malumore. 
Diciamocelo chiaramente inoltre, vi è una propensione quasi naturale a vedere tutto male, e che lo notizie negative fanno sempre più rumore di quelle positive. Ciascuno può tranquillamente trarne le dovute conclusioni.
L’informazione, assume così la forma di un potere sulle coscienze, ha la capacità di convincere specie quando non si ha il tempo e la voglia di accertarne la veridicità. Oltre al fatto che un buon giornalista, prima di scrivere qualcosa dovrebbe accertarne egli stesso la fondatezza, nell’intento di offrire al lettore un racconto scevro da ogni qualsivoglia giudizio personale. 

Da ciò, mi sono sentito molto offeso. Come Molese prima, come cittadino poi.

Da qui, per caso, è iniziata la mia "esperienza": mentre ero intento a cercare di verificare se quello che mi veniva raccontato della carta stampata era vero oppure no.

sabato 1 novembre 2014

Riflessioni a margine della morte



A.Arivabene -  Elogio della polvere (2013)
E’ usanza in questo mese, quello di novembre, recarsi per i cimiteri. Da un lato vi sono persone che fanno visite ai propri parenti, dall’altro chi, come me, passeggia.

Non una passeggiata da piazza, ma un camminare accorto, in mezzo a tutte quelle foto ingiallite, in bianco e nero, e per quelli più recenti a colori sgargianti, persino modificate. Su sfondi di barche, cieli o montagne, forse a ricordo di un brandello della vita di quella o quell’altra persona.

Poi ci sono le sepolture di quelli senza “dignità”, ovvero, senza alcuna lapide scolpita, senza nessun bel santo, e a malapena una croce. Ma non fa niente, quelli, continuano a pagare ancora lo scotto di una esistenza tirata a campare. Non c’è neppure il nome, forse un emigrato, un forestiero, uno che comunque non avuto nessuno per cui fosse così importante da essere degno di un loculo decente. Per loro, soprattutto, il mio eterno riposo.

Insieme a questo, tra questi loculi, c’è la mia infanzia. Non una visione macabra della mia infanzia, ma vi sono tra questi, tutti coloro che in un modo o nell’altro mi hanno accompagnato, sia pure solo con un saluto. C’è la signora che abitava di fianco alla mia vecchia casa, quella coppia di coniugi anziani morti a distanza di un anno. C’è persino qualche professore, che mi ha trasmesso il suo sapere, il Sacerdote con il quale ho servito messa, oltre che tutti i parenti, nonni e zii che hanno terminato il loro viaggio su questa terra.

Sono le mie origini, coloro che ho incontrato appena subito dopo l’uscio della porta. E mi tornano in mente le parole dello scrittore dissidente cubano Reinaldo Arenas: «…io sono quel bambino antipatico, certamente non voluto, con la faccia rotonda e sporca; io sono quel bambino di sempre arrabbiato e solo, io sono quel bambino di sempre, davanti al panorama di terrore imminente, lebbra imminente, pulci imminenti, di offese e di crimine imminenti. Io sono quel bambino disgustoso che improvvisa un letto con un vecchio scatolone e aspetta, certo, che verrai con me». Già perché ero e rimango, il bambino, dissidente.

Passo ancora oltre nella mia passeggiata, e trovo quel loculo. Un ragazzo, 24 anni, in mezzo a tanti anziani come una stonatura. Come un insulto. Già perché concludere il proprio ciclo di vita è accettabile, abbandonare il gioco sul più bello, no. Avere 24 anni, una famiglia ed un bambino, e per un accidente della vita, non poterla proseguire, è logicamente ingiusto.

Lo conoscevo. O forse, lo conosco. Non so se parlare come di qualcuno che non c’è più, o come di un qualcuno che ancora è, ma in modo diverso. Cristianamente parlando, dovrei optare per la seconda accezione. Ma preferisco la prima.

Era un ragazzo diventato uomo, perché fino a quindici anni fa era così. Eri chiamato a crescere e pure velocemente. Non era appassionato allo studio, ha arrancato fino all’ultimo, per uno straccio di terza media. La vita poi l’ha rosicata tra lavoretti, speranze e attese. Attese spezzate proprio mentre “mandava avanti la baracca”.

Tutto passa, l’uomo passa. Ma il racconto, la storia di una vita resta finché restano i testimoni del suo tempo. Poi passa tutto e finisce. Io c’ero quel giorno. C’ero e posso raccontarlo. Abitava di fianco a me, nell’altra stanza. Credo che fu la prima esperienza vera della morte che ho avuto. Essa si presentò con tutta la sua cattiveria, la sua crudeltà.

Da dietro una porta, potei ascoltare tutto il dolore e lo strazio che essa provocò. Lo strappò alla vita, come ad una madre il bambino dall’utero, senza preavviso. Mentre era intento a fare, a costruire, a procurare. Era intento a fare il suo lavoro, a costruire un palazzo e metaforicamente il suo futuro, a procurare a sua moglie e al suo bambino il pane quotidiano.

Ero dietro la porta, chiusa, e entro quelle mura, le urla si fecero forti, assordanti, inascoltate. Dov’era Dio in quel momento? Non voleva morire, non doveva morire, non era giusto che morisse. Se un Dio esisteva doveva essere un bastardo, un essere maligno e terribile. Non era di certo il buon padre della Chiesa, quelle erano solo soluzioni oleose per detergere la scottatura, ma il realtà essa prendeva sempre più fuoco.

La madre perse conoscenza, i parenti si fecero subito prossimi, il padre non una parola. A stento versava qualche lacrima, ma l’uomo vero di ieri muore dentro dal dolore, non può non deve lasciare il timone di una imbarcazione che da quel giorno non avrebbe più goduto del sole, destinata a rimanere in porto. Per sempre.

All’indomani il funerale, tanta gente, tanto sconcerto. Io ero a messa, facevo il chierichetto. Le parole del prete non le ricordo, ma ricordo la bara. Le urla, i pianti, l’ingiustizia.

Perché racconto questa storia triste? Perché la morte è triste. La morte è falsa, la morte è una vigliacca. Ha la capacità di distruggere non solo la vita di chi si è portato via, ma anche quella di chi gli sta intorno.  Perché il racconto di una storia  senza morale e senza speranza? Perché neppure io ho sempre le risposte che mi servono: se avessi tutte le risposte, come dice quel personaggio de Il Nome della Rosa, insegnerei teologia a Parigi. Ma persino le parole si arrendono davanti al dolore dell’uomo, ammutoliscono, finiscono.

forse te la sei cercata
forse non sei stato forte
non m'importa ma non so
se eri pronto per la morte
(883 – Se tornerai)

« Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.»



martedì 1 luglio 2014

Obbedire "incarnazione" del verbo Amare


Un vero e proprio gavettone di acqua gelata!
E’ così che ho definito l’altro ieri, il nuovo libro della Miriano, “Obbedire è meglio. Le regole della Compagnia dell'agnello” edito da Sozogno. 
Una serie di storie, di quelle che l’autrice chiama i “membri” di questa compagnia. Persone straordinariamente comuni, che vivono la loro vita, o meglio “offrono il loro collo, come un agnello in sacrificio, stando fermi e solenni, obbedendo”.

Obbedire? Ma a cosa? A chi? 
Alla propria realtà, al proprio stato, a quella vita (la tua) che ti pare tanto noiosa, o tanto sbagliata ma che ha anche picchi inauditi di felicità.
Obbedire al proprio marito, o alla propria moglie, strada privilegiata per chi ha scoperto la propria vocazione matrimoniale.
Obbedire alla propria vita, ai propri limiti, ai talenti che ognuno possiede, cercando di trovare il coraggio e la forza guardando chi cerca di farcela. “Ma io tutto quello che so, l’ho visto fare da qualcuno, l’ho ascoltato con gli occhi”.

Un libro quello di Costanza, che ti invita a fare i conti con la realtà delle cose, con la materialità della fede, una fede “fatta di carne e sangue” e non “spiritualoide e disincarnata”. Obbedire con un SI (sorridente) ogni giorno a quel Signore che per usare le parole di Chiara di Assisi “Ti ha chiamata, e ti ha amata come una mamma con il suo piccolino”. (Lettera ad Agnese)

Particolare degno di nota, a parer mio, è il capitolo 8, in cui riesce a “tradurre in vita” quelli che sono stati i punti più osteggiati della meravigliosa enciclica di Paolo VI, Humanum Vitae, precisamente i numeri 9-12. Riesce attraverso il racconto dell’esperienza a trasmettere la bellezza dell’insegnamento della Chiesa per cui “ogni atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita”.

Non aggiungo altro, se non che è il regalo giusto da fare e da farsi, per conoscere questa bellissima “Compagnia dell’Agnello” e mentre sarete intenti a scoprire i compagni dell’autrice, vi sentirete circondati da tanti bellissimi agnelli che ogni giorno pascolano “fieri e mansueti” nella vostra vita.

Per saperne di più sull'autrice visitate il suo BLOG.

sabato 29 marzo 2014

Dacci oggi il nostro amore quotidiano!

 
«L’amore equivale a superare ininterrottamente l’egoismo individuale. O amo per sempre e totalmente o non amo, perché esso ha un’estensione nel tempo e nel vissuto esistenziale. Così come non posso dare all’altro solo gli avanzi del mio tempo o le briciole della mia quotidianità. Non ho altro che me stesso/a e voglio donare tutto me stesso/a. Dare il giusto valore ai sentimenti rimanda a non agire con superficialità e leggerezza – verso se stessi e il proprio partner – … La riuscita di un matrimonio non dipende unicamente dal fatto di aver trovato la persona “giusta”; è principalmente il risultato di un cammino fatto di molto impegno, di una volontà decisa di amare (non basta dire “io amo”, ma “io voglio amare”), di una capacità di donazione e di un grande spirito di sacrificio. E poi ci vuole coraggio, il coraggio di scalare le montagne, se necessario, e tanta determinazione. Sono tutte componenti che ci mettono costantemente in discussione. Se infatti ci si sposa non considerando minimamente la possibilità di compiere dei sacrifici, alla prima occasione in cui questi diverranno obbligatori, la prima reazione sarà di delusione, la seconda… di fuga. Quindi, la cosa basilare è tenere ben chiaro l’obiettivo che ci ha condotti un giorno a prometterci amore eterno. L’atleta che non si prefigge il traguardo non vincerà mai la corsa. Solo se abbiamo un fine, una meta condivisa e non ci arrendiamo dinanzi alle difficoltà, allora potremmo raggiungerla, salendo sul gradino più alto del podio. Gli sposi, disegnando insieme il loro presente e futuro, sono uniti da uguali progetti, perché quando c’è un ideale comune, interloquisce Antoine De Saint Exupery: “Amare non è guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Per i fidanzati e gli sposi non esistono manuali o ricette precostituite, vi sono però alcuni suggerimenti che non si palesano mai vani. “Ricordate: giudicare l’altro e polemizzare con lui per farlo cambiare porta inevitabilmente, a lungo andare, a rancori e frustrazioni reciproche. Guardare solo le cose negative è facile e … banale. Potete pensare di cambiare partner, potete fermarvi ad analizzare sempre il comportamento dell’altro, potete continuamente lamentarvi, ma il vostro rapporto non farà un passo, non uno, verso lo stare bene. Dunque, un consiglio: accettate i vostri punti deboli, accettate quelli del vostro coniuge e il vostro rapporto comincerà ad andare bene. Aiutate l’altro, valorizzatelo, fate emergere la sua parte migliore e il vostro rapporto andrà sempre meglio. Non ho mai concordato con quanti si sentono liberi da tensioni e identificano in ciò la prova del loro amore. Le prove dell’amore si vedono nei momenti difficili, quando l’altro è in crisi, non si piace, ha perso la stima di sé, oppure quando tutto ciò capita a voi stessi”».
(V. Albisetti, psicologo).