sabato 1 novembre 2014

Riflessioni a margine della morte



A.Arivabene -  Elogio della polvere (2013)
E’ usanza in questo mese, quello di novembre, recarsi per i cimiteri. Da un lato vi sono persone che fanno visite ai propri parenti, dall’altro chi, come me, passeggia.

Non una passeggiata da piazza, ma un camminare accorto, in mezzo a tutte quelle foto ingiallite, in bianco e nero, e per quelli più recenti a colori sgargianti, persino modificate. Su sfondi di barche, cieli o montagne, forse a ricordo di un brandello della vita di quella o quell’altra persona.

Poi ci sono le sepolture di quelli senza “dignità”, ovvero, senza alcuna lapide scolpita, senza nessun bel santo, e a malapena una croce. Ma non fa niente, quelli, continuano a pagare ancora lo scotto di una esistenza tirata a campare. Non c’è neppure il nome, forse un emigrato, un forestiero, uno che comunque non avuto nessuno per cui fosse così importante da essere degno di un loculo decente. Per loro, soprattutto, il mio eterno riposo.

Insieme a questo, tra questi loculi, c’è la mia infanzia. Non una visione macabra della mia infanzia, ma vi sono tra questi, tutti coloro che in un modo o nell’altro mi hanno accompagnato, sia pure solo con un saluto. C’è la signora che abitava di fianco alla mia vecchia casa, quella coppia di coniugi anziani morti a distanza di un anno. C’è persino qualche professore, che mi ha trasmesso il suo sapere, il Sacerdote con il quale ho servito messa, oltre che tutti i parenti, nonni e zii che hanno terminato il loro viaggio su questa terra.

Sono le mie origini, coloro che ho incontrato appena subito dopo l’uscio della porta. E mi tornano in mente le parole dello scrittore dissidente cubano Reinaldo Arenas: «…io sono quel bambino antipatico, certamente non voluto, con la faccia rotonda e sporca; io sono quel bambino di sempre arrabbiato e solo, io sono quel bambino di sempre, davanti al panorama di terrore imminente, lebbra imminente, pulci imminenti, di offese e di crimine imminenti. Io sono quel bambino disgustoso che improvvisa un letto con un vecchio scatolone e aspetta, certo, che verrai con me». Già perché ero e rimango, il bambino, dissidente.

Passo ancora oltre nella mia passeggiata, e trovo quel loculo. Un ragazzo, 24 anni, in mezzo a tanti anziani come una stonatura. Come un insulto. Già perché concludere il proprio ciclo di vita è accettabile, abbandonare il gioco sul più bello, no. Avere 24 anni, una famiglia ed un bambino, e per un accidente della vita, non poterla proseguire, è logicamente ingiusto.

Lo conoscevo. O forse, lo conosco. Non so se parlare come di qualcuno che non c’è più, o come di un qualcuno che ancora è, ma in modo diverso. Cristianamente parlando, dovrei optare per la seconda accezione. Ma preferisco la prima.

Era un ragazzo diventato uomo, perché fino a quindici anni fa era così. Eri chiamato a crescere e pure velocemente. Non era appassionato allo studio, ha arrancato fino all’ultimo, per uno straccio di terza media. La vita poi l’ha rosicata tra lavoretti, speranze e attese. Attese spezzate proprio mentre “mandava avanti la baracca”.

Tutto passa, l’uomo passa. Ma il racconto, la storia di una vita resta finché restano i testimoni del suo tempo. Poi passa tutto e finisce. Io c’ero quel giorno. C’ero e posso raccontarlo. Abitava di fianco a me, nell’altra stanza. Credo che fu la prima esperienza vera della morte che ho avuto. Essa si presentò con tutta la sua cattiveria, la sua crudeltà.

Da dietro una porta, potei ascoltare tutto il dolore e lo strazio che essa provocò. Lo strappò alla vita, come ad una madre il bambino dall’utero, senza preavviso. Mentre era intento a fare, a costruire, a procurare. Era intento a fare il suo lavoro, a costruire un palazzo e metaforicamente il suo futuro, a procurare a sua moglie e al suo bambino il pane quotidiano.

Ero dietro la porta, chiusa, e entro quelle mura, le urla si fecero forti, assordanti, inascoltate. Dov’era Dio in quel momento? Non voleva morire, non doveva morire, non era giusto che morisse. Se un Dio esisteva doveva essere un bastardo, un essere maligno e terribile. Non era di certo il buon padre della Chiesa, quelle erano solo soluzioni oleose per detergere la scottatura, ma il realtà essa prendeva sempre più fuoco.

La madre perse conoscenza, i parenti si fecero subito prossimi, il padre non una parola. A stento versava qualche lacrima, ma l’uomo vero di ieri muore dentro dal dolore, non può non deve lasciare il timone di una imbarcazione che da quel giorno non avrebbe più goduto del sole, destinata a rimanere in porto. Per sempre.

All’indomani il funerale, tanta gente, tanto sconcerto. Io ero a messa, facevo il chierichetto. Le parole del prete non le ricordo, ma ricordo la bara. Le urla, i pianti, l’ingiustizia.

Perché racconto questa storia triste? Perché la morte è triste. La morte è falsa, la morte è una vigliacca. Ha la capacità di distruggere non solo la vita di chi si è portato via, ma anche quella di chi gli sta intorno.  Perché il racconto di una storia  senza morale e senza speranza? Perché neppure io ho sempre le risposte che mi servono: se avessi tutte le risposte, come dice quel personaggio de Il Nome della Rosa, insegnerei teologia a Parigi. Ma persino le parole si arrendono davanti al dolore dell’uomo, ammutoliscono, finiscono.

forse te la sei cercata
forse non sei stato forte
non m'importa ma non so
se eri pronto per la morte
(883 – Se tornerai)

« Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.»



Nessun commento:

Posta un commento