A.Arivabene - Elogio della polvere (2013) |
Non una passeggiata da piazza, ma un camminare
accorto, in mezzo a tutte quelle foto ingiallite, in bianco e nero, e per
quelli più recenti a colori sgargianti, persino modificate. Su sfondi di
barche, cieli o montagne, forse a ricordo di un brandello della vita di quella
o quell’altra persona.
Poi ci sono le sepolture di quelli senza “dignità”,
ovvero, senza alcuna lapide scolpita, senza nessun bel santo, e a malapena una
croce. Ma non fa niente, quelli, continuano a pagare ancora lo scotto di una
esistenza tirata a campare. Non c’è neppure il nome, forse un emigrato, un
forestiero, uno che comunque non avuto nessuno per cui fosse così importante da
essere degno di un loculo decente. Per loro, soprattutto, il mio eterno riposo.
Insieme a questo, tra questi loculi, c’è la mia
infanzia. Non una visione macabra della mia infanzia, ma vi sono tra questi,
tutti coloro che in un modo o nell’altro mi hanno accompagnato, sia pure solo
con un saluto. C’è la signora che abitava di fianco alla mia vecchia casa,
quella coppia di coniugi anziani morti a distanza di un anno. C’è persino
qualche professore, che mi ha trasmesso il suo sapere, il Sacerdote con il
quale ho servito messa, oltre che tutti i parenti, nonni e zii che hanno
terminato il loro viaggio su questa terra.
Sono le mie origini, coloro che ho incontrato appena
subito dopo l’uscio della porta. E mi
tornano in mente le parole dello scrittore dissidente cubano Reinaldo
Arenas: «…io sono quel bambino antipatico, certamente non voluto, con la
faccia rotonda e sporca; io sono quel bambino di sempre arrabbiato e solo, io sono
quel bambino di sempre, davanti al panorama di terrore imminente, lebbra
imminente, pulci imminenti, di offese e di crimine imminenti. Io sono quel
bambino disgustoso che improvvisa un letto con un vecchio scatolone e aspetta,
certo, che verrai con me». Già perché ero e rimango, il bambino,
dissidente.
Passo ancora oltre nella mia passeggiata, e trovo
quel loculo. Un ragazzo, 24 anni, in mezzo a tanti anziani come una stonatura.
Come un insulto. Già perché concludere il proprio ciclo di vita è accettabile,
abbandonare il gioco sul più bello, no. Avere 24 anni, una famiglia ed un
bambino, e per un accidente della vita, non poterla proseguire, è logicamente
ingiusto.
Lo conoscevo. O forse, lo conosco. Non so se parlare
come di qualcuno che non c’è più, o come di un qualcuno che ancora è, ma in
modo diverso. Cristianamente parlando, dovrei optare per la seconda accezione. Ma
preferisco la prima.
Era un ragazzo diventato uomo, perché fino a quindici
anni fa era così. Eri chiamato a crescere e pure velocemente. Non era
appassionato allo studio, ha arrancato fino all’ultimo, per uno straccio di
terza media. La vita poi l’ha rosicata tra lavoretti, speranze e attese. Attese
spezzate proprio mentre “mandava avanti la baracca”.
Tutto passa, l’uomo passa. Ma il racconto, la storia
di una vita resta finché restano i testimoni del suo tempo. Poi passa tutto e
finisce. Io c’ero quel giorno. C’ero e posso raccontarlo. Abitava di fianco a
me, nell’altra stanza. Credo che fu la prima esperienza vera della morte che ho
avuto. Essa si presentò con tutta la sua cattiveria, la sua crudeltà.
Da dietro una porta, potei ascoltare tutto il dolore
e lo strazio che essa provocò. Lo strappò alla vita, come ad una madre il
bambino dall’utero, senza preavviso. Mentre era intento a fare, a costruire, a
procurare. Era intento a fare il suo lavoro, a costruire un palazzo e
metaforicamente il suo futuro, a procurare a sua moglie e al suo bambino il
pane quotidiano.
Ero dietro la porta, chiusa, e entro quelle mura, le
urla si fecero forti, assordanti, inascoltate. Dov’era Dio in quel momento? Non
voleva morire, non doveva morire, non era giusto che morisse. Se un Dio
esisteva doveva essere un bastardo, un essere maligno e terribile. Non era di
certo il buon padre della Chiesa, quelle erano solo soluzioni oleose per
detergere la scottatura, ma il realtà essa prendeva sempre più fuoco.
La madre perse conoscenza, i parenti si fecero
subito prossimi, il padre non una parola. A stento versava qualche lacrima, ma
l’uomo vero di ieri muore dentro dal dolore, non può non deve lasciare il
timone di una imbarcazione che da quel giorno non avrebbe più goduto del sole,
destinata a rimanere in porto. Per sempre.
All’indomani il funerale, tanta gente, tanto
sconcerto. Io ero a messa, facevo il chierichetto. Le parole del prete non le
ricordo, ma ricordo la bara. Le urla, i pianti, l’ingiustizia.
Perché racconto questa storia triste? Perché la
morte è triste. La morte è falsa, la morte è una vigliacca. Ha la capacità di
distruggere non solo la vita di chi si è portato via, ma anche quella di chi
gli sta intorno. Perché il racconto di
una storia senza morale e senza
speranza? Perché neppure io ho sempre le risposte che mi servono: se avessi
tutte le risposte, come dice quel personaggio de Il Nome della Rosa, insegnerei
teologia a Parigi. Ma persino le parole si arrendono davanti al dolore
dell’uomo, ammutoliscono, finiscono.
forse te la
sei cercata
forse non sei stato forte
non m'importa ma non so
se eri pronto per la morte
forse non sei stato forte
non m'importa ma non so
se eri pronto per la morte
(883 – Se tornerai)
« Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.»
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